Antonio Baldini (1941)

«Letteratura», n. 4, Firenze, ottobre-dicembre 1941, poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Antonio Baldini

Nell’abbondanza di intelligenza e di gusto che caratterizza la piú moderna letteratura, in quella forma di alto divertimento che la prosa saggistica ci offre (non arbitrariamente adopero la parola divertimento poiché vengono messe in giuoco tutte le facoltà piú raffinate della personalità verso una soluzione non centrale, ma verso la costruzione di un mondo periferico, ricco di particolari allusivi che soddisfano una tensione problemistica, e insieme un desiderio di stilismo rigoroso), l’opera di Baldini assume una particolare posizione di esemplarità e di eccezione. E se si osserva in tutti gli scrittori di saggi una cura eccessiva di riempire la pagina fino agli orli, di strafare, di esaudire completamente una richiesta di intelligenza assetata di pretesti, si deve costatare che Baldini dà alle sue pagine uno spazio maggiore, un’aria meno luccicante, una soddisfazione piú tradizionale e piú uniforme. Egli non vuole impegnarci totalmente ed illusoriamente come spesso avviene a chi vuole stravincere con l’intelligenza, e si contenta dell’umorismo come soluzione meno impegnativa. Egli non ci presenta sotto la realtà inferni che esaltino il nostro desiderio di combinazioni audaci e resistenti, non fa nascere da un realismo freddo e a volte disperato un fasto descrittivo e metafisico; tiene il suo pubblico con la pagina di una monotonia ariosa, con un sorriso bonario che vuol limitare e realizzare senza apparenza di fatica le raffinatezze, anche sue, del gusto e dell’intelligenza.

Nell’affermazione di questa abilissima letteratura baldiniana è naturalmente importante, anche se ovvio, notare la presenza dell’Ariosto come la testimonianza di un atteggiamento che vuole respingere in una molle e bonaria risonanza gli urti piú duri della realtà. I primi interessi di Baldini furono critici e rivolti all’Ariosto, studiato in articoli, in una tesi di laurea, in una edizione dei Cinque canti del ’45. Un interesse per l’Ariosto continuato anche nel periodo calligrafico di Michelaccio, in una scelta ariostesca per Treves, in Ludovico della tranquillità, dove si compone la figura di un amabile maestro di vita e di stile. L’Ariosto può indicare molte cose per l’interesse umano e poetico di Baldini, e si capisce che era soprattutto la concretezza, la familiarità attenta e fantastica che lo colpivano. In quella pura arte c’è intriso un tale senso della vita accolta totalmente e senza retorica di nessun genere, che un accostamento volontario all’Ariosto significava prima di tutto un desiderio di vita poetica con quel tanto di naturale e di distratto, di abbandonato e di concreto che distingue l’artista quando non è trasportato da fremiti messianici e mistici. Il bonario segreto senza asprezza, l’insofferenza dei fastidi inutili si offrivano nel gesto ariostesco ed invitavano il giovane Baldini alle pacate fantasie di Roma, della ragazza, dei motivi essenziali e primari della vita. Se riprendiamo Ludovico della tranquillità ci troviamo non solo un omaggio di letterato, ma la proposizione di un modello ideale in cui i motivi primi diventano, mediati, motivi dell’ammiratore stesso. Come il motivo del viaggiatore sul mappamondo che dové particolarmente affascinare il nostro corrispondente di guerra e di dopoguerra, per quel mirabile senso di spazio e tempo del sogno che Baldini sottolinea finemente: «Il genio ariostesco ha caratteri di straordinaria confidenzialità e tutto il mondo è come casa sua». «Uno dei tanti incanti del Furioso è in questo sentirsi alloggiati con la piú cara familiarità nel mondo delle piú impensate meraviglie». L’incontro con l’Ariosto precisò meglio in Baldini l’uso di una sentimentalità confidenziale che cercò di farsi bonarietà umoristica. A quella scuola si formò il migliore Baldini: la familiarità, certo, si poteva maturare in scherzosità piú autonoma e i limiti accorti dell’ironia potevano cercare un contorno troppo gustoso e compiaciuto. Difetti che noi troviamo anche nel Baldini piú maturo e che vengono superati dove l’intelligenza di cose vive, il ritratto animato creano un interesse, un fondo reale e a suo modo risentito. Quando il gustoso prevale non assistito da questa piú profonda curiosità e da una presenza del concreto, umano, la maniera baldiniana mostra i suoi limiti, i suoi pericoli, i suoi possibili sviluppi di semplice divertimento e di facile effetto.

Cosí la piú evidente formazione del nostro scrittore è consistita nel fuggire la sentimentalità troppo esplicita di Mastro Pastoso (1914), e nell’insinuarla invece con grande abilità dentro le pieghe di un umorismo che inizialmente soggiaceva agli effetti patetici che se ne possono ricavare. A mano a mano che egli procederà nel suo cammino rovescerà sempre piú quel rapporto con sicura precisazione della sua arte. Alle prime qualcuno potrebbe anche pensare che l’origine di questo umorismo sia simile a quella del Panzini e che nella immensa diversità vi sia però una certa parentela. Invece in Baldini la tinta conservatrice è soprattutto un piacere dell’immaginazione piú che una vera espressione morale e l’umorismo non nasce per un gusto moralistico di rivincita, ma per una disposizione a vedere gli uomini e le cose in quel tanto di esagerato che celano nelle loro misure, una disposizione ad estendere un legame di inevitabili erroruzzi ingiudicati che caratterizzano una situazione. Raro è un cosí diretto confluire di capacità umoristiche e di un fondo senza asprezza, senza amarezze profonde che eliminano un dramma e creano una sapienza senza sospiri, una umanità piú pronta a sorridere che a ridere o a piangere. Il nucleo personale di Baldini è piuttosto povero, non si estende oltre una prima affermazione di vita, di normalità senza scosse, che può svilupparsi gradualmente sempre con la stessa proporzione senza compiere mai un balzo inaspettato: a parte che una troppo chiara partecipazione sentimentale ingrossa i difetti altrimenti consumati in una certa dolcezza di stile, anche un esempio come quello della prostituta di Oppeln, come ci si richiama alla memoria se non per la lieve evidenza della figurina bianca nel suo giuoco affannoso, alla stessa maniera che le tre personcine di soldati austriaci intravisti a lavorare di piccozza in Nostro purgatorio su di una cima nevosa? Soluzione di stupore incantato che prevale su i piú diretti moti del cuore. Anche le pagine sulla morte di Spadini, le piú appassionate di Baldini, non possono vivere fuori del clima di serenità creato da tutte le pagine precedenti della rievocazione del pittore; il miracoloso intervento di Papini durante un momento di tentazione, il carattere della signora Spadini ecc.

Vi sono scrittori in cui ogni effusione è melanconica, altri in cui ogni dolore è pacificato, risolto. Baldini ha saputo dare alla seconda soluzione un’aria naturale, rinunciando ad effetti chiassosi o taglienti con un illusorio abbandono bonaccione, con un velo di passato sicuro sui repertori modernissimi da cui cava le sue punte piú ardite, con una cura di affabilità che cela le ricerche piú affilate.

Questo scrittore che ha saputo cosí bene sentire le tinte, le sfumature dell’impressionismo e delle correnti moderne, ha un culto della tradizione che confluisce certamente nella poetica rondista, ma si avvicina anche ad un certo gusto ottocentesco che ha già disapprovato le ambizioni romantiche: «Cosí, quando vennero i romantici, che pure erano armati di una volontà veramente eroica ed avevano una quantità di buone idee, siccome per l’odio della mitologia e per l’amore dei coloriti locali andarono a stuzzicare la regola, cominciarono, come sapete, dal non capire piú la lingua quale fosse e si misero disordinatamente fuori di strada. Diavoli scatenati, tutto quello che toccavano rovesciavano in terra. E lo stesso romanzo di Manzoni, che al getto gli era uscito di mano cosí fosco e discordante, si salvò in seguito solo per quella seconda mano di lingua italiana che gli fu data e per una certa dolcezza convenzionale che a forza di studio l’accortissimo lombardo riuscí a infondergli di bel nuovo riga per riga, facendo scusare la passata imprevidenza con quel suo accaparrante sorriso di pentito». La regola esiste per Baldini, non certo in senso rigidamente classicistico e piú per raggiungere una pasta blanda e sorridente che non per il bisogno di una perfezione severa, la regola esiste come quella di una nuova convenienza che l’artista deve realizzare eliminando durezze e ambizioni morali e trasponendo in quel ritmo antieroico non l’urgenza della vita, ma il suo sapore pacificato. Quanto la prosa di altri saggisti moderni porta nella propria regola raffinata un’intelligenza dolorosa e instancabile che non perdona e non si placa, altrettanto la prosa di Baldini risulta da un’intelligenza che non soffre, che ama comporre la scena, non scandirla secondo una luce spietata. Si ricorra all’esempio estremo del Ratto delle Sabine in cui la composizione è calcolata con una calma evidenza, le figure vengono poste in scena in una successione compiaciuta, con la mancanza di fretta di chi si diverte a far vedere che non può diventare nervoso neppure in un giuoco difficile. Le parole escono gioiose di creare una scena tutta sapida di concretezza, tutta animata dal riso che si insinua in ogni parola e la atteggia in quel tanto che occorre di deformazione di un realismo piatto. Tutta la lingua di Baldini è cosí fatta da una tendenza al concreto e da una deformazione sorridente nel lessico e nella costruzione per risolvere tutto in una visione rallentata che gusta e suggerisce le virtú delle parole e del discorso: «Difese differenti: quale mostrandosi forastica e impraticabile oltre il credibile, quale pagando subito d’occhi dolci e pietosi; le prime nei violenti gesti repulsivi facendo magari saltar fuori poppe morbide e bianche come fior di farina e gli aggraziati fusoli delle gambe...».

Già in Nostro purgatorio (1918) (che rimane il piú strano libro di guerra di tutta la letteratura europea per l’assoluta mancanza del tragico, per una voluta distensione di quel clima eccezionale) Baldini portava un gusto dello scrivere fin troppo evidente, fin troppo gioioso anche se il suo colore cela sempre un taglio piú risentito e cerca misure d’intelligenza, non puramente descrittive: «Da sotto i soliti fotografi non trovano pace e girano inveleniti tutt’intorno ai gradini di legno, e scattano le macchine tutti insieme, che nemmeno i cavalli farebbero tanto rumore su questo soffice prato. Tra loro c’è un giovinetto affricano che mi domando chi ce l’ha portato...». Si affermava subito una coerenza sicura fra il tono umano dello scrittore e la sua pacata preziosità, si affermava anche la prevalenza del ritratto della scena appena fermata sui bozzetti allungati, secondo una costruzione gustosa e sofistica o sulle espressioni sentimentali o riflessive pur tanto limitate e sorvegliate. Da tante pagine brevi e dense di impressioni di una vita bonaria della guerra, si staccano perfette visioni come quelle dei tre austriaci sul Nozzolo o il ritratto del tenente tornato dall’attacco «fosco, febbricitante, stracciato, truccato di polvere come un Pierrot» che cena con la prima ragazza trovata per strada nella città di retrovia, in un ristorante all’aperto: «Ricordavano certi santi in gloria, domesticamente immaginati dal Beato Angelico fra stelle e pergolati, che riflettono sulle guance bianche tutta l’innocente luminaria del paradiso». Dall’impressione precisa di un sapore un po’ uguale e che alla fine stucca (veramente bisogna ripetere per Baldini l’affermazione banale che mentre un suo pezzo riesce delizioso, tutto un libro sconcerta il lettore piú attento) si sollevano non tanto le raffinatezze stilistiche che non possono mai raggiungere – né egli lo vorrebbe – una loro autonomia lirica («principia tra gli abeti a sciogliersi per suo conto in chiacchiere di cascatelle la neve piú acclive...»), né certe affermazioni generali che ambiscono a dare a quella prosa una certa ampiezza con l’uso di astratti in mezzo alla folla di parole concrete («la guerra ha di queste enormi assenze, di queste antiche pazienze»), quanto i ricordi dal vero, in cui lo spirito umoristico si introduce leggermente, senza esagerazioni, senza trovate, come limite di bonaria autocritica nella costruzione di una esperienza che il sentimento vuole imporre all’attenzione dello scrittore: cosí la pagina sulla sua ferita al fronte: «Il mio cerusico seguitava a tagliare e stracciare: poi cominciò a fasciarmi con una garza sporca. Io non volevo, poi volevo, poi ne dissi tante. Era una cosa straordinaria quanto gusto ci mettevo a chiacchierare con quel pover’uomo che batteva i denti».

Dopo Nostro purgatorio, coincide con la «Ronda» e con il movimento della prosa d’arte la piú decisa esperienza calligrafica di Baldini, il Michelaccio (1924). Michelaccio voleva essere una prova di letterato piú libero di fronte al sia pure alto giornalismo del volume precedente, la presa di posizione del suo stile sorretto solo dalla fantasia, la traduzione poetica del suo senso delle cose: «Io non accuso nessuno. Ma questa cosa sola vi raccomando di tener presente: che se voi private della sua libertà Michelaccio fra qualche tempo il suo posto sulla scena sarebbe rimpiazzato da Lazzarone. E non sarà un guadagno per nessuno... Egli è italiano al punto da far cadere le braccia a tutti i quacqueri del mondo. E a meno che voi non vogliate cambiare la vostra antichissima terra con una nuova patria di quacqueri, puritani, bluffisti e stupidi sciovinisti, potete pensar davvero di togliere l’“italianissimo” dalla circolazione? Pensate che l’Italia possa viver senza? Che senza Michelaccio l’Italia sia per restar la stessa? integra? sopportabile?». Michelaccio è dunque la figura di una protesta di italianismo (non strapaese) che implica un senso della vita contraria ad ogni rigorismo, ricco di impegni primari tutelati da una viva pigrizia, nemica di ogni rigida convenzione e di ogni zelo burocratico, ma è soprattutto il pretesto di una realizzazione stilistica di una fantasia lenta e preziosa in un andamento tra popolareggiante ed arcaico, in una tinta volutamente scialba di vecchia stampa popolare. In questo tentativo di precisare la propria fantasia in una favola e di spengervi sentimentalità ed umorismo, Baldini si allontanava dalle sue capacità migliori, mentre preparava in quella calligrafia la pasta piú scaltra e riposata che ritroveremo nelle sintesi successive piú piene. Qui i lenti e radi periodetti pretenziosi nella loro stentatezza («Uscendo dai monti, il primo incontro che Michelaccio fece fu d’un accampamento militare. S’arrolò soldato. Ora viene il bello...») non valgono se non come prove che uno scrittore, che già ha raggiunto una sua forma, ma si spaventa della sua eccessiva precisione brillante, fa per cercare una nuova concretezza. Tanto che vi si sente perfino l’esempio del Pinocchio collodiano: specie nel dialogo minuto, tra puntiglioso, saputo, sorridente e popolare che si svolge tra Michelaccio e la fortuna «A fare il Michelaccio, cosa volete che si spenda? Una sola cosa mi ci vorrebbe – Animo, dilla! – Un rimedio – Contro che? – Scusate: contro la fortuna: – Eppure un regalo ho da fartelo, un segno te l’ho da lasciare. Lo vuol la Ruota – Sentiamo anche questa – Michelaccio tu vincerai il dolore... – Vi siete sprecata tutta, signora Fortuna – Sei esigente, per esser Michelaccio – Appunto perché Michelaccio ci sono arrivato per conto mio – Arrivato dove? – A intendere che infine, il dolore, piú che dolere non può: cosí come la donna piú che ingannare non può e l’amico piú che tradire non può: e chi vive piú che morire non può, e nella peggiore o nella migliore delle ipotesi piú che vivere non può, signora Fortuna». E il buon umorismo baldiniano cerca qui il grottesco del popolare e del goffo (la sorpresa del sergente Biringuccio, la parlata della marchesa Marsilia) con la stessa trasposizione calligrafica con cui vengon creati pezzi di estrema ricercatezza, come l’incontro dell’Amorotto con l’Ariosto. Ancor peggio avviene con i tentativi di racconto (Gennarino re, Duccio cannibale): mancando di una genuina inventività, una situazione intravvista come una macchia o una trovata intelligente viene tirata avanti a forza di particolari stilistici e con bizzarrie fredde e sofistiche.

Il Michelaccio rimane l’unico tentativo unitario di Baldini di un personaggio di fantasia come nesso narrativo; la Dolce calamita (1929), diventata poi piú abbondantemente Beato fra le donne (1940), rappresenta, in una specie di abilissima rivista – in cui racconti, scherzi, bozzetti, moralità sono amalgamati da richiami letterari, frammenti di altri autori – il tentativo di un divertimento in cui il senso della vita si svolga in umorismo, si alleggerisca in pagine letterarie senza esplicito impegno morale. Bisogna subito ammettere che, dove l’appoggio è puramente letterario (Patrocinio di Angelica, Ilaria), i pezzi non si reggono, affaticati da toni estetizzanti che non si possono fare ironia e non perdono cosí il loro peso iniziale: «Io sono solamente e semplicemente un po’ innamorato di Madonna Ilaria». Anche i racconti non danno l’appoggio necessario alla prosa di Baldini, lambiccati (Olimpia, il Mangiatore di donne) o lineari come un bozzetto primo Novecento (Zeffirino Baciucchioli), né resistono molte pagine divaganti fra esercizio di stile e umorismo che potremmo chiamare addirittura da Bertoldo. Si pensi al capitolo Lettere d’amore: solo che questo uso del costume ottocentesco si staccasse dal piú serio atteggiamento baldiniano e diventerebbe trovata di facile effetto: «Cosa fare per persuadervi? Mio amore è sincero verissimo costante immenso eterno. Lo giuro sulla memoria di mia nonna morta» o «1890. Ceneri. Divertistevi menarmi pel naso. Attesi bestemmiando. Invece elevarla ideali sublimi uccideste premeditando anima attaccata filo sottile». Dove è la posizione stessa delle parole, la falsa concisione interrotta da una parola meno diplomatica, che inducono a riconoscere in questa prosa l’avvio ad un umorismo troppo esplicito e facile a diventare moda. Raramente cosí in questa prosa di divertimento si raggiunge piú che uno stile medio di scenetta minutamente sviluppata, secondo il ritmo della prima intuizione.

In questo senso, per una continuità di respiro che è assai difficile dove la dolcezza divertente deve reggere pagine e pagine, è da indicare il pezzo «Una strada senza donne è la cosa piú malinconica che si possa immaginare...». Il ritmo del tema non decade e l’attenzione va ugualmente a tanta bravura e a tanta coerenza. Prima il ritrattino del falso mendicante, la sorpresa dei poliziotti che lo sbugiardano davanti alla gente, la spiegazione vaga della sua abitudine bizzarra. Poi lo sviluppo piú decisamente impegnativo, ironico e caldo di quella passione sorridente (trova la sua misura di ironica declamazione nella presentazione della scritta veduta nella stazione di Spoleto: «Donne, perché ci fate vedere le gambe?»), l’esemplificazione del bozzetto galante. Semmai la coda finale è di troppo: «Vanno sotto le povere vecchine, vanno sotto le povere donnette che a forza d’andare a piedi hanno preso talmente il colore della strada che i vetturini neanche le vedono piú». Ma infine una soluzione di bravura, come un’ultima luce di traverso, rialza il tono di questo notevole saggio: «e tutti, anche nel piú fitto dell’imbroglio stradale, godono di averla per un momento lí tra le ruote e le zampe e di poterla un attimo rispecchiare nei vetri e negli ottoni luccicanti dello proprie vetture».

Ma come prova massima del buongustaio che vuole insaporire il piú possibile la sua pagina si deve considerare la collezione di quadri parigini della Vecchia del Bal Bullier (1934). Qui l’impressionismo delle cose viste dà alla volontà trasformatrice dell’autore una materia precisa, una ricchezza che gli permette di spargere per tutto il libro una nebbiolina leggera e metafisica senza timore di costruire a vuoto. Tutte le finezze, le punte della sensibilità non sono qui un semplice esercizio calligrafico, ma l’esaltazione poetica di una intuizione organica, suscettibile nell’artista di queste trasposizioni raffinate. Qui il pacato narratore delle proprie impressioni riesce perfino ad evocare un senso magico, una scomposizione e ricomposizione di atmosfera come nel quadretto della Santé, di Rue Venise o in questo notturno parigino: «Passeggiando di notte per qualche strada solitaria, exempli gratia, di Trastevere, m’è accaduto benissimo alle volte di immaginare il mio corpo lungo disteso sotto un lampione con un coltello luccicante infisso nel costato. Ma questa era almeno un’immagine che dava presa alla fantasia. Mentreché aggirandomi per certe strade di Parigi quello che spiacevolmente mi ossessiona è l’idea di una sparizione totale, senza un grido o una macchia di sangue. Tutta l’immaginazione ne soffre». La familiarità, senza diventare leziosa, sa mantenere la sua sfumatura umoristica ad una impressione di estrema sensibilità, come in questo quadro di vecchio malato: «Il vecchietto stava dritto in piedi fra il muro dell’androne e la donna, bianco in viso come un morto, e alzava lo sguardo affaticato sul palazzo di faccia in pieno sole. L’aria era dolce, la strada piena di animazione e pareva che agli alberi stecchiti del boulevard tardasse di rimetter le foglie... La donna che gli stava accanto aveva un’aria seccatissima e pareva che stesse lí per lí per sbottare: bè, che fanno? e pareva proprio di quelle che accompagnano il cane per istrada perché faccia pipí». La Vecchia del Bal Bullier fa veder bene di quanta sensibilità moderna sia dotato il tradizionalista Baldini e come egli sappia maneggiare il materiale piú squisito ed intellettuale. Non ci si stupisce cosí quando in Italia di Bonincontro (1940) troviamo questa ferrovia metafisica: «Una ferrovia alla Piranesi che nessun treno ha mai percorso e che non impegna minimamente l’invenzione d’una trazione a vapore, una ferrovia che si potrebbe benissimo immaginare nel fondo di paesaggio della Gioconda leonardesca. Una ferrovia in secco. Zitellona». Si osservi bene il procedere di questa frase e si avrà un esempio ottimo della sintesi espressiva di Baldini: le immagini intellettuali si conducono con la massima naturalezza verso l’espressione piú scherzosa che non suona come scusa (semmai una mediazione verso un pubblico di buongustai amanti del concreto), ma rinforza con il suo sapore di naturalezza le immagini precedenti. Quando la sintesi riesce, umorismo e fantasia collaborano: «Visto invece di faccia, dalla parte di Rimini, il monte ha una figura assai piú pacifica e staccata con una distanza scandita da torre a torre, in tempo ritardato; è come una terzina slargata in ottava. È il monte dei palanconi e dei francobolli». Allora anche l’abilità compositiva perde la linearità un po’ scolastica del pezzo di bravura, aspira a misure musicali che sono della prosa piú riuscita: come nella bella protesta contro la sciocca unificazione ad ogni costo dei vari costumi regionali, il ritornello della canzonetta veneta «Gobo so pare» imprime a tutto il brano un ritmo di accelerazione e di ritardo che lo unisce in una coerenza perfetta.

Ma a parte uno sviluppo che raggiunge la sua pienezza già dopo la prova meno felice di Michelaccio, le qualità genuine di Baldini si realizzano soprattutto quando lo scrittore è afferrato a un lembo di realtà, ad una persona, al movimento che intorno a quella persona si crea. Si può prendere come uno dei pezzi piú vistosi e piú riusciti il S. Ferdinando di Puglia in Italia di Bonincontro, la storia della gloria e della rovina del monco dispensatore di numeri per il lotto. Il pezzo, una corrispondenza, è costruito con la solita lentezza iniziale e con dei vuoti d’interesse, riempiti da elementi mimetici (i biglietti scritti al monco da diversi postulanti) inseriti ad elenco, da frasi complete che dovrebbero rinforzare, e lo fanno solo esteriormente, il ritmo della pagina: «I sindaci della provincia hanno telegrafato a quello del fortunato paese, cav. Leopoldi, per avere buoni numeri in tempo, i farmacisti al farmacista, i parroci al parroco, i marescialli dei carabinieri al maresciallo». Poi la descrizione si decide ad un linguaggio piú variato ed umoristico («Dicesi che il monco abbia minacciato il governo, quando questo non si decida a portare la ferrovia da Trinitapoli a S. Ferdinando, di sbancarlo a furia di terni e quaterne vinte dai sanferdinandesi»), piú allusivo e frizzante («Un vizio chiama l’altro. Ed al circolo S. Ferdinando quello che s’è vinto al lotto si gioca al baccarat»). Viene poi centrata la figura del protagonista, l’eroe viene colto da una serie serrata di notazioni brevi che vogliono creare il contrasto eroicomico del ritratto: «Porta il cappello un po’ sugli occhi che hanno una guardatura nerissima. Di statura un poco sotto la media, procede fiero e impettito, ascolta molto, parla poco. Ha di quando in quando gesti risentiti. Nero di pelo, volto fortemente abbronzato, testa stretta e le labbra grosse e sporgenti, aride e quasi sempre dischiuse, ombreggiate da baffi neri tagliati all’americana...», e prima: «Risponde misuratamente al saluto dei paesani. Tiene abitualmente il moncherino in tasca. La mano destra la perdette da ragazzo per acchiappare una bomba di carta in una festa di fuochi paesani. Ora gli hanno ordinato una mano meccanica all’istituto Rizzoli di Bologna». Si osservi la ineccepibile purezza del «misuratamente», la vivezza del ricordo infantile della bomba di carta, il contrasto con la mano meccanica e l’istituto Rizzoli come in un pezzo dadaistico, la concinnitas dell’«ascolta molto, parla poco», il procedere sempre piú sicuro e umoristico verso il ritratto classico: «nero di pelle, ecc.». Poi altre due luci essenziali quando il monco entra improvvisamente nelle case degli amici, li fa scoprire («perché qui stanno in casa col cappello in testa»), li fa pregare per la sua cabala, e quando la sera dopo aver trovato i numeri «li sparge ai quattro venti, li scrive sui muri, bussa alle porte chiuse e grida: giocate forte!». Nella seconda parte la corrispondenza prende il sopravvento e solo qualche particolare di umorismo piú risentito riesce sul fondo solito del ritratto («il piccolo padre del genere umano si ritira») o su di un materiale piú critico, piú intellettuale («33-48: quella musica e quel miele che solo lui sa mettere in certe combinazioni»). Poi la terza parte, la catastrofe in cui, sui tratti di una bonaria scena paesana, Baldini sa sviluppare una trama di tragedia comica di effettivo vigore: la grande piazza buia, dall’angolo opposto della quale deve venire l’uomo con la notizia del lotto, la stanzetta disadorna con le oleografie dei sovrani e un orologio a muro che «faceva un rumore del diavolo, come tutti gli orologi delle stanze dove s’attende con qualche pena una notizia», le persone che si affannano a consolare Ignazio per rinforzare la propria speranza. E la superba didascalia: «Pareva un coro all’ultimo atto d’una tragedia rusticana e le pause tra una frase e l’altra eran tremende». E infine, quando la notizia che i numeri non sono usciti è arrivata, la luce torna per l’ultima volta sul monco sconfitto con una sensibilizzazione di estrema purezza: «Inebetito, Ignazio, s’accarezzava un ginocchio. Il fumo della sigaretta gli usciva bianchissimo dalla bocca aperta». Qui è l’equilibrio migliore di Baldini, tra la vocazione all’immagine e l’intenzione di non lasciare mai inutilizzato un risultato umoristico. Equilibrio tra il piacevole e il raffinato che Baldini sapientemente allarga in zone medie e grigie piuttosto che esasperarlo puntualmente: sí che la stucchevolezza (specie in Beato fra le donne) nasce piú dalle pagine che dalla pagina. Questo equilibrio si fa piú corposo quando si esercita in una specie di realizzazione pittoresca di uno stato d’animo in movimento, entro i confini di un ritratto. Cosí questo bellissimo ritratto di vecchio professore meridionale che recita sonetti rivoluzionari e massonici: «Ma, riattaccando il sonetto che veniva dopo, ecco che il vecchio lucifero si rimontava al suono della propria voce, pigliava fuoco all’attrito dei propri erre, gli occhi tornavano a infiammarsi di cupo splendore, la voce a tremare di sdegno nella barba e la Palingenesi pareva nuovamente alle porte. Finito poi il sonetto, spianava le rughe vendicatrici della declamazione e tornava a sorridere con la cara malizia d’uno che dal fondo del suo paese ne ha viste tante e poi tante, e anche le Muse cambiar di veste e di cappello».

Se il ritratto dà a Baldini il modo piú sicuro di liberarsi dal pericolo di un umorismo fine a se stesso e di una dolcezza eccessiva, di una maniera o troppo pratica o troppo leziosa, un’intera galleria di ritratti ci è offerta da Amici allo spiedo (1932)[1], ritratti in cui gusto della critica e gusto del colore individuale dan luogo all’umorismo piú giustificato e all’arte piú evidente. Dove l’interesse per il soggetto studiato è fiacco, e il ricordo personale meno vivo, il pezzo si regge sul solito decoro e pende verso la rievocazione critica, ma dove intelligenza e sensibilità sono ugualmente impegnati nascono i veri capolavori di Baldini, i suoi veri saggi per un pubblico di eccezione. Si pensi al processo di Spadini, alla fantasia pasquale di Papini e Giuliotti; la nostra attenzione è nutrita cosí completamente dai personaggi ritrattati che si reggerebbe anche se i tratti non corrispondessero a quelli dell’intellettuale rappresentato; ma in piú corrispondono e noi proviamo la gioia di vederci crescere davanti una figura in cui spunti critici, intuizioni validissime son corsi ad incarnarsi in gesti e colori. A volte è solo un’apparizione breve ed intensa (De Chirico tra lo stupore delle popolane), a volte piccole rappresentazioni in cui sfondo e ritratto si aiutano (D’Amico conferenziere davanti ai carcerati di Regina Coeli), o brevi drammi di un ambiente movimentato (il magnifico pezzo su Simoni direttore della compagnia teatrale per i soldati ad Udine, con intercalato il ritratto di Zacconi e della Duse che si recitano la parte appassionata e lacrimosa in cui la finzione scenica ormai li rinchiude). In questi pezzi la prosa di Baldini fa le sue massime prove e mai come qui essa è saporita e sognata, anche se il giro della costruzione scivola spesso (ad esempio nel pezzo S’io fossi papa) in una ripetizione monotona, a lasciare un sospiro ironicamente sentimentale entro proporzioni di voluta, saggia euritmia. Qui la parola è collocata a figurare la mediazione di un mondo reale a quello di gradita riflessione del pezzo letterario, qui la sapienza essenziale di Baldini, altre volte diventata maniera, riesce a dosare mirabilmente quegli elementi che abbiamo rilevato nel corso di questo articolo.


1 Ripubblicati poi con il titolo di Bonincontri d’Italia, Firenze, 1943 [Nota di Binni, 1951].